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SITTING ON THE DOCK OF THE BAY., se penso che la troia non c'era...nemmeno nella parte più recondita di me...

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hadele dadaumpah
view post Posted on 11/2/2009, 03:08




RECUPERI


Editoriale Novembre 2003

THE FIVE OBSTRUCTIONS - DUE MESI DOPO (Non solo due giorni).


Riflessioni sul film di Lars von Trier e Jorgen Leth.



Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Controcorrente”, questo velenoso (anche questo!) film di Von Trier è un documentario, o meglio, un documento.
Che cosa documenta “The Five Obstructions”?
Jorgen Leth, fondamentalmente, e…Lars von Trier, anche troppo: la rara bestia impietosa e la sua mostruosa delicatezza.

(“E’ sempre chi attacca che si espone di più”).

L’asfissia della visione individuale della realtà, parziale, irrimediabilmente selettiva, limitata e destinata alla cankrena…è il tema del film, pensavo, dopo due giorni che l’avevo visto, lo scorso settembre. Dopo due giorni va bene.

Un cortometraggio in bianco e nero del 1967, di Jorgen Leth, della durata di 12 minuti intitolato “The perfect man” ritrae l’attore Patrick Bauchau in un impeccabile contesto di stile pubblicitario, un’icona d’epoca. Il titolo è un ironico commento all’ uomo della pubblicità, un narciso “ben servito” di glamour e suprema eleganza.
Von Trier ne ha colto la sottile verità e afferma di ammirarlo incondizionatamente.

Ora Jorgen Leth ha cinquant’anni, vive ad Haiti, ottimi sigari e una leggera forma depressiva.
Preda di uno spleen saturnino è fiaccato da un totale blocco creativo.
La cura, (la sfida, il gioco?) a cui Von Trier lo sottopone è questa: Leth deve girare 5 versioni dello stesso soggetto di “The perfect man” sottoponendosi alle sue regole, i cinque ostacoli, appunto.

Regole, da uno specialista di dogmi.
Assistiamo quindi alle fasi di lavorazione delle cinque versioni, con le riprese del back stage che diventano la trama del film. I dialoghi tra maestro (“sono il principio didattico di quest’opera”) e allievo, tra una versione e l’altra, sono attesi con una certa suspense da uno spettatore grato che il rigore del terribile danese e le sue maligne facezie, per questa volta, non siano rivolte a lui.

Jorgen Leth, liberato dai suoi personali dogmi per la necessità di rispettare quelli di Von Trier, viene indotto a intraprendere un viaggio di introspezione fino ai livelli profondi della sua creatività.
Deve superare idiosincrasie, repulsioni e blocchi stilistici ed è costretto, costretto, ad avventurarsi nell’autentica “alterità”.
Quell’altro da sé così difficile da sopportare perché ci rende vulnerabili, instabili, che nessuno vuol essere vulnerabile, instabile…che c’è un tale discomfort, mannaggia!


A dir poco indimenticabile, per la ferocia, la scena di Perfect Man in completo bianco, seduto ad un tavolo imbandito pieno di argenti, candelabri e squisite pietanze, in un vicolo del quartiere a luci rosse di Bombay che Leth aveva citato, quando Von Trier gli aveva chiesto che cos’era per lui l’inferno.
Perfect Man “ben servito”.

La cura è radicale. L’appunto del maestro secondo cui i volti della folla di affamati abitanti del quartiere non si sarebbero dovuti vedere, mentre Leth li ha solo schermati, ha qualcosa di voluto, non è un caso.

Tra le varie forme, ad un certo punto, Jorgen Leth viene costretto ad usare la tecnica dell’animazione, che pregiudizialmente lo disgusta, e raggiunge un risultato di grande bellezza.
Ecco che la sua faccia, mummificata, finalmente si arrende alla trasparenza.
E’ di nuovo ricettivo, capace di farsi “toccare” dalla realtà come dimostra la scena in cui, assorto, si sorprende ad ascoltare i rumori di una coppia invisibile, nel corridoio dell’albergo. E’ guarito dalla sordità, dalla cecità.
E’ di nuovo vulnerabile, forse è guarito.
Rimane il 5° ostacolo, apparentemente il più “ostruttivo”, ed è un regalo.
E’ il momento in cui Von Trier gli toglie tutto e Leth deve ridursi a fare da comparsa nelle sue mani, costretto a leggere un testo.
Si tratta di una confessione, ma, manipolazione nella manipolazione, non è la sua, è quella di Von Trier.

Il “principio didattico dell’opera” si appropria dell’ultimo atto.
Cominci a capire quello che hai fatto dopo due giorni, è il succo.

Edited by hadele dadaumpah - 24/2/2009, 19:27
 
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cf10052015
view post Posted on 11/2/2009, 10:39




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No no il bar non chiude, (mi) [le] stavo solo domandando se c'è ancora qualcuno che passa a leggere di qui.
Ho risposto? Ma che fatica inserire 'sta foto ventosa che è rimbalzata due o tre volte per tutto il pianeta, suonando.
Von Trier: la colonna sonora di "Dancer In The Dark" [Bjork?]
(O anche la colonna sonora di "Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo", quel suono di archetto su una lama di sega)
p.
 
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rien4
view post Posted on 13/2/2009, 12:57




The Waste Land
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 13/2/2009, 15:15




Signor p.

La ringrazio, O.K.

Ricordo la musica di quell'archetto. E anche l'immagine del carcerato che suona. Era nella parte superiore dell'inquadratura, mentre sotto accadeva qualcos'altro.

Sicuramente c'è di mezzo Genet,
però secondo la mia memoria, in questo momento era in "Un chien andalou".

Andrò a rivedere, forse, ma anche no.

Saluti

Hadele



RECUPERI




NOTTE INSONNE E ANDARIVIENI NEL TENTATIVO DI SFUGGIRE ALLA NOIA CON UN VIAGGIO ASTRALE. (2007?)


Di stelle fisse, immobili, qui non se ne vede
Solo cronache minuziose di soli morenti
Una serie di eventi
Di tragedie concluse o in nuce, future
Improvvise fioriture
O miracoli imprevisti
Nati dalla regina madre di tutti i casi
E da ministri tronfi di preghiere
Aidoru di un qualche pianeta
Abitato da rane sapienti…

Solo…

Nel mostruoso ondeggiare dell’oceano di buio insondabile
Perché rotondo
O a spirale, chissà
Anche loro, e in tanti, sulla tolda di un barcone di nome “Vita”,

(come quello di Florestano, qui, che fece la comparsa in Medea di Pasolini durante le riprese in laguna),

Portato da due polene telepatiche,
“Belle come cyborg e terribili come sogni di Gilgamesh”, diciamo
Sul Vita, al largo
Come noi galleggiano

Ebbene, sì…

Gli archetipi, signori miei, peculiari marchingegni
Di stoppa, calce e fil di ferro, marionette bizantine,
Misteriosi volti dall’aria familiare e un po’ truce,
I primitivi tedofori, pare, di una luce non originata,
Da cui si dipartono i fili guizzanti
In perenne movimento
Che segano l’aria senz’aria

Per la rete…

Che si sta tessendo
Con noi a saltare come pesci
Già pescati
Indubbiamente
Già fregati
Dentro

Essi
I pattern
I modelli
Al largo
Visibili da ogni porto
Stanno

Che siano il dna psichico di ogni razza?
Impastato con polvere da sparo
Semplici dispositivi anti-scorie, intendo
Bombe a tempo, programmate…

O lo zodiaco con il suo illusionismo?
Stelle monovocaliche ?
Rune minerali

Magnetiche…

Crocevia dei flussi mesmerici?
Guardiani della soglia
Forniti di test all’americana
Per debellare ogni Hybris virulento?

O varchi caotici, scienza pura
Capaci solo di “o” stupefatte
Attraverso cui si aprono i passaggi?

O fumosi tarocchi lisergici
Macchiati dei vini di tutte le osterie di tutti i pianeti
Estroflessi e rinsecchiti dal tempo senza tempo
Ben conservati

Perchè salati…

Oh…sì, salati
Di lacrime in abbondanza versate.

O le qualità di dio?
Chissà.
Cmq. di stelle fisse, immobili, qui non se ne vede.

Invio postcard. Baci dall’universo universale.

Edited by hadele dadaumpah - 14/2/2009, 12:18
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 19/2/2009, 01:31




RECUPERI

EDITORIALE GIUGNO 2004

Gli animali ci parlano? No, altrimenti saremmo finiti in un telefilm di quarta.
Ehi! Qui siamo in Agendae! Ciao a tutti e grazie agli sponsor, che è andata proprio bene ‘sto mese.

Gli animali comunicano ma non parlano. La parola è sedimentazione, astrazione e a volte anche cicatrice.
Gli animali, invece, vivono in quel enorme vuoto di memoria che è il presente. “Solo liberi” non lo dicono, lo “camminano” verso una linea d’orizzonte circolare, infinita come nella realtà.
Mi riferisco alla seconda di copertina che abbiamo dedicato all’opera bellissima degli alunni del Circolo Didattico di Aquileia, che hanno partecipato al concorso “Un Segno per Marco”.
Animali in fuga dallo zoo, verso il mare e il cielo azzurro, ci metto anche noi.

“Vorrei essere un animale” dice Davide Toffolo parlando dei diversi piani di esperienza della realtà. Eva lo dice da sempre.
Eva e Fosca, giovanissime fan, hanno incontrato Davide per una lunga intervista sull’ultimo CD dei “Tre Allegri Ragazzi Morti”. Davide, con il grande Altan, erano gli illustrissimi membri della giuria del concorso.
Così Eva e Fosca sono riuscite a farlo parlare dei motivi enigmatici e profondi (ma a volte anche proprio per niente per niente, e meno male!) della sua produzione artistica.
Davide è un artista della musica e del disegno, uno che ha avuto il fegato di raccontare Pasolini con un graphic novel, veramente coraggioso.
Ora sta lavorando a “Il Sogno del Gorilla Bianco” il suo nuovo romanzo a fumetti e ci ha permesso la pubblicazione di una tavola in anteprima.

Comunque anche noi solo liberi, o meglio, molto più liberi.

E’ arrivata l’estate.

Siamo abbastanza liberi per fare di sera in sera una delle mille cose di questa agenda? Una o anche due o tre…visto che vi abbiamo raccolto tutto il meglio della grande stagione che incomincia, Udine&Jazz, Folkest, Onde Mediterranee, i concerti di Nei Suoni dei Luoghi e il Noborders Music Festival di Tarvisio, il Festival Celtico a Trieste, Morarorock e Sunsplash Festival, Udine Estate Danza con le incursioni serali, improvvise, della compagnia “ Corpi Sensibili” che animeranno le vie della città.

E poi le anticipazioni di Mittelfest e le grandi mostre estive: Hic et Nunc a S. Vito al Tagliamento, le esposizioni al Centro d’Arte Contemporanea a Villa Manin: Love/Hate, i capolavori del Museo d’Arte Contemporanea di Chicago e Vernice, la giovane pittura italiana, senza dimenticare le opere nel parco, per esempio le freschissime stanze d’acqua che appaiono e scompaiono nell’installazione “Appearing Rooms” dell’artista Jeppe Hein.
E poi le sagre delle pro-loco, Brass Speck and Beer a Sauris, musica cultura e piatti tipici …
Leggendo il nostro calendario sarà difficile che vi sfugga qualcosa, anzi impossibile.

Quel che è certo è che una di queste sere io devo andare a “Jeko Bay”, musica cubana e aperitivo in spiaggia, al Lido di Staranzano, c’è di mezzo una strana storia.
Mi è uscito un certo segno dei Ching, chi li conosce sa che c’è un unico, unico! segno che parla di un jeko.
Forse è una strepitosa folata di serendipità! Perché la domanda era….
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 22/2/2009, 13:44




RECUPERI


ESSELUNGA, non il supermercato.



Come spesso accade, sempre quando siamo di fronte a una espressione originale, si nota una certa corrispondenza tra gli stilemi che sottendono i tratti fisici di un artista e il suo segno.
Particolarmente vero per Esselunga, per chiamarla con una locuzione vagamente androgina, come il suo aspetto: la nervatura espressiva della sua linea la riflette coerentemente.
Il suo stile, caratterizzato dall’irrinunciabile di-segno della forma, esercitato nelle numerose tavole a fumetto degli esordi, si travasa da un mezzo all’altro, da un soggetto all’altro, con la naturalezza di chi sembra essere nato con dei lapis al posto delle dita.

E’ un’artista di lunga esperienza e un’insegnate d’arte sempre aperta alle sperimentazioni fuori dai canoni, com’era Miela Reina.

Usa con grande raffinatezza tecniche semplici come il collage, la tempera, il frottage, il gesso. Per gli assemblaggi sceglie prevalentemente elementi purificati dal tempo e dall’usura, di cui infallibilmente coglie l’intrinseca liricità. La sua gamma coloristica è formata da tinte calde e naturali e, come la sua linea ritmica e nervosa, è vincolata da una interiore, ferrea, esigenza di “eleganza”.

Esselunga ha fatto le più varie esperienze artistiche, fin dall’infanzia disegna, assembla, installa, costruisce, filma, recita e dipinge.
Fa anche niente, per lunghi periodi, e allora diventa particolarmente stralunata.

Alle sperimentazioni solitarie e collettive nella pirotecnica atmosfera dei laboratori dell’ Istituto d’arte Fabiani, nei suoi anni di formazione, sono seguiti i viaggi in autostop da cui tornava con intrecci amicali piuttosto originali e zaini pieni di oggetti orfani e parlanti, da accudire e incastonare in una storia.
Il dialogo segreto con gli oggetti, memoria dei giochi fantasmagorici dell’infanzia, rappresenta il tema principale delle sue opere.

Con suppellettili, indumenti, tazze, teiere, forchette, coltelli, piatti di zuppa, dolci di gesso, mattoni e soprattutto mobili: frigoriferi, credenze, cassettiere, sedie... l’artista instaura una sorta di complicità “animistica”.
Nei suoi quadri c’è sempre qualcosa che si muove, o che si è appena mosso, o manda segnali. Code e antenne, buchi neri o grottesche espressioni umane, spuntano inaspettatamente.

Non sono dei mobili, i suoi, probabilmente sono dei contenitori in cui vengono occultate misteriose o indicibili pulsioni. Così è nella serie Mobilità dove frigoriferi e cassettiere (e ville) sembrano abitati da saturnine, turbolente presenze.
La serie Vestitini, prezioso ricordo di una “ricezione” dal profondo, ritrae fantasmatiche entità che si manifestano in forma di modelli per neonati.

Recentemente Momobili e Mattoni Animati evidenziano quella sua vena di ludica ironia, presente da sempre.
Diamoci del the, una delle ultime opere, “registra” un moltiplicarsi di tazze fumanti, imbandite nel silenzio, in una radura nel bosco.
Gli invitati sono assenti e l’artista si occupa delle variazioni del cielo.

Carica di echi lontani l’installazione Senso Unico (Colonos, 2002), un richiamo ai cinque sensi: cinque laconiche immagini, grafica da vocabolario, erano strategicamente collocate in una serie di piccoli spazi ricavati nel porcile. Uno ad uno guardiamo i nostri “dispositivi” percettivi: sarà bene non dimenticare che la forma della realtà in cui viviamo dipende solo da questi.

Le numerose serie di ritratti, anche filmati, esprimono le sue riflessioni sull’identità e la forma dei volti, e anche i risultati imprevisti di una ri-contestualizzazione delle persone, come nel video per Teatri di Vita. (Bologna 2003).

Dame e Toreri (Gradisca 2004) si fronteggiano in due serie parallele: le dame si sa che cosa vogliono, lo scrivono sui muri: “Casa dolce casa” , ma chissà che cosa aspettano tutti quei toreri pensosi che si affacciano uno dopo l’altro alla medesima finestra, al di là di una polverosa natura morta alla Morandi, esposta come fosse un presepio, dall’abitante di quella casa?


Tratto economico del suo essere una “mestierante” dell’arte era per Esselunga l’elaborazione in serie ma, negli ultimi lavori, la serialità si sta caratterizzando come elemento portante nella sua produzione.

La sua visione si articola sempre più spesso in tre o più scene, come a catturare un elemento temporale, sicuramente collegato alle sue esperienze di fumetto e di teatro.
Laboriose opere sequenziali sono Il Marinaretto ha il sole in faccia, ventiquattro scene, come i fotogrammi in un secondo.
Il protagonista, un marinaretto stile Bibì e Bibò, esibisce una serie di micro-reazioni all’avvicendarsi di apparizioni allucinatorie in riva ad un archetipico fiume Stella.

Oppure Alunno con Numeri, costituita da 50 pannelli in cui compaiono volti di “alunni” oscurati da fiori giganteschi.
Come in un catalogo botanico, il catalogo di talenti. E’ una grande opera emblematica, forse un’ allusione alla difficoltà di instaurare un rapporto educativo che sia autenticamente maieutico.
Alunno con numeri è il seguito di Classe indisciplinata, 20 molle giganti vestite a strisce… un guizzo ironico, sui “galeotti” che popolano le classi.

Parlando dei sui soggetti preferiti “Sono i mobili della casa delle Gemelle Irvette”, dice Esslunga, chiudendo in un cerchio ideale tutta la sua produzione.
Le Gemelle Irvette, infatti, sono nate come striscia molti anni fa, da una giornata di spensierata schizofrenia.
Abitano un mondo vuoto (da arredare, appunto) dove risuonano nonsense e giocose illazioni sulla loro identità doppia, tripla, o…nulla.
Veramente impudiche, le gemelle esprimono la loro allegra nudità mentale con un uso alquanto spregiudicato del linguaggio: frasi in libertà e locuzioni ecolaliche scandalosamente infantili (oppete! oppete!).

Non c’è da meravigliarsi, quindi
che poi “l’architetto che c’è in me ci fischiano le orecchie
come ammette la stessa Esse
sedendosi su una delle 4 sedie appena finite
piene di oppete! pasticcini e farfugliamenti vari
accanto ai Sig.ri Mario Marenco e Bruno Munari
suoi degni compari…

…ah, sì! Suoi “degni” compari!


(Censimento artisti friulani, Il Nuovo, 2005)

Edited by hadele dadaumpah - 24/2/2009, 19:38
 
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cf10052015
view post Posted on 23/2/2009, 23:52




uno
arriva
a
casa
così
stanco.
.
così.
.
stanco.
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 24/2/2009, 13:20




Un occhio vivo e uno addormentato

catturava al volo sbadigli

perché era da Carcassonne che aveva finito tutti i pensieri

e altrimenti non restava che guardare i kilometri

i metri

i centimetri

i millimetri

che erano sempre gli stessi di una settimana fa

un giorno fa

un'ora fa

un minuto fa

del suo tempo venduto.




Edited by hadele dadaumpah - 24/2/2009, 19:50
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 24/2/2009, 23:54




Editoriale novembre 2006

Memoria di Piermario Ciani.



Negli ultimi incontri, prima della malattia, lui era quest’uomo imponente con un lungo pizzo grigio, estravagante solo in quello veramente, ma bastava.
Occhi fermi, a volte ironici, a volte praticamente tristi, seduto in disparte con le braccia “conserte”, come a segnalare una barriera con il mondo in movimento poco più in là.
In realtà era semplicemente la postura tipica dell’uomo seduto a tavola che aspetta di venir servito di cibo e bevande.
Amava il cibo, amava mangiare, mangiare e bere, che però non poteva.
Durante le cene che ho condiviso con lui, la sua occhiata più golosa era sempre per il piatto al di là delle proprie braccia, come fanno i bambini.
Rubava dal piatto anche, ma solo ad Emanuela.

Piermario Ciani, l’ho conosciuto veramente, stranamente, molto tardi.

Nel ‘95 gli avevamo mandato un invito alla rassegna del libro d’autore “Libro quore lirico” che si sarebbe svolta alla Galleria Fonticus a Groznjan, in Istria.
Ciani ci aveva spedito a strettissimo giro di posta uno dei libri AAA Edizioni fatti con scarti tipografici, libri “pro-forma”.
Magnifiche “metafore” o “surrogati”, o “feticci” del “libro” “quore” “lirico”.

Poi, tra noi, c’è stata una lunga conversazione notturna alcuni anni fa, a S. Vito.
Ci eravamo incontrati per caso e , a fine giornata, avevamo tutti e due le palle piene. Di una mostra a cui non fregava niente degli occhi di nessuno. Succede con l’arte contemporanea, che a volte ha tremendamente ragione.

Si è parlato di arte, si è parlato di mercato e di pubblico, e si è parlato della disperata impotenza/inappetenza di certe forme “artistiche”, post di qualcosa, prodromi di niente, che imperversano quasi loro malgrado.
Per dire… io sapevo di lui che era coinvolto nel progetto Luther Blissett, ma quando mi è arrivata la frase “Luther Blissett è nato sul divano di casa mia” ho avuto un piacevole trasalimento.
Dunque, lui è di quel genere che fa proprio queste cose, e ho incominciato a capire.

Non è stato poi difficile scoprire tutto il suo universo di relazioni, invenzioni e provocazioni. Tante, varie, fredde, sottilmente ironiche o pesantemente paradossali.
A volte con la presenza di un gran numero di comparse, ingaggiate loro malgrado, a osannare un’icona inesistente che funzionava benissimo…perché non reale, un’ invenzione pura ma iper-reale. Mi riferisco alle sue “beffe” mediatiche. A “Oreste” alla Biennale di Venezia.

L’attività principale di Ciani per un certo periodo è stata la produzione di attacchi convergenti alla concezione stereotipata del fare artistico come attività consacrata dal “sistema”, sostenuta dal mercato o imbalsamata da una mortifera unanimità di consenso.
Il mondo dell’arte. Il concetto di arte.
Ma la provocazione più riuscita, nonostante l’incisività e lo humour formidabile che ha espresso nelle altre, nelle numerose altre, secondo la mia opinione, è stata quando, quale consulente per le arti visive dell’Agenzia Giovani per il Comune di Udine, aveva organizzato “Il Buio oltre la Tela - Vendere l’Arte”, una serie di interventi con i maggiori galleristi e critici italiani. Manco sapevano dov’era Udine, molti di questi.
“Ho risparmiato i primi dieci anni di tentativi fuori target di tanti giovani artisti esordienti, vagamente interessati ad emergere, senza la minima conoscenza delle regole del mercato”, credo abbia detto lui “e forse riconsegnato salvificamente qualche paio di sane braccia all’agricoltura” ho pensato io, sull’onda di un vecchio refrain.


A Ciani era cara la dimensione ludica , il senso raffinato del gioco grafico o linguistico, l’espressione originale della mente curiosa che inventa nuove logiche, nuove combinazioni, oppure si forgia strumenti espressivi unici. Possedeva il senso sicuro dello scopritore di talenti, da osservatore qual era dell’orizzonte artistico. Infatti sono molti gli artisti, moltE le artistE, che gli devono incoraggiamento e indirizzo.
Sapeva indicare la strada, la consapevolezza dei propri mezzi e motivi, prima tappa del percorso per affrontare la carriera più difficile che esista, fondata totalmente sulla centratura del sé, da qualsiasi parte la si prenda.


Dopo aver conosciuto i suoi lavori come fotografo, grafico, ma soprattutto come organizzatore, curatore e editore, mi ero fatta di lui un’idea che legava insieme tutte le sue attività.
Lo vedevo come una specie particolare di sindacalista, un tout à fait serio, serissimo, promotore del valore di FUN, della necessità esistenziale della libertà creativa, nonostante tutto e tutti.
Un mediatore perennemente all’ opera in difesa della possibilità illimitata di giocare.
Tutto il mondo della mail art, questo fiume carsico pieno di artisti iper-produttivi con grande voglia di giocare/giocarsi a suon di invenzioni, esperimenti, provocazioni, ricerche, ossessioni, con un senso di complicità che è molto, molto di più del semplice feedback…di questa estesa rete internazionale, Piermario Ciani era uno degli animatori, nonché fedele archivista. Montagne di splendidi materiali sono immagazzinati a casa sua.

La mail art aveva per lui una importanza fondamentale, non solo dal punto di vista artistico ma, soprattutto, esistenziale.
Esistenziale.
La dimensione di FUNTASTIC UNITED NATIONS, quella specie di realtà parallela che stava costruendo, ne è il riflesso.

E come l’arte “imbustabile” è bidimensionale.
Questo è il punto. Quello che si aggira dentro FUN è straordinariamente sintetico, straordinariamente asettico.
Emozioni anche potenti sono iscritte in un ambito formale che ne disciplina i motivi, raffredda il pathos e perciò ne moltiplica le possibilità combinatorie.

Ciani delle foto ai Naoniani, stupende, scatti a più o meno improvvisati ai gruppi punk rock dell’universo Great Complotto di Pordenone, nella stagione acida.

Ciani, allora, era già così.

Tendeva ad una visione bidimensionale della realtà, scremava, immortalava già con una sfumatura d’ ironia, le pulsioni erotico-psicotiche di una provincia del “mitico nord est” stravolta da figli intelligentissimi, nullafacenti, precocemente lasciati soli da padri occupati a costruire un’ industria da quella miriade di officine da 14 ore di lavoro al giorno che era l’indotto della Rex di allora…

trasformandole in “cartapiatta” su cui sarebbe stato possibile toccare con estrema disinvoltura materiali esplosivi, col senno di poi.
Che lui però aveva genialmente intuito.

Ma ( o…eppure…o perciò…veramente non mi è chiaro con che tipo di connettivo dovrebbe cominciare questa frase) tra i suoi lavori sono molti quelli dedicati agli “assalti” al concetto di identità, prima di tutto la propria.

Ciani, sì, ce l’aveva molto con la propria.

Inserisco qui un tassello di autentica “memoria”, caro Piermario.
Ho incontrato qualcuno che ti ricorda, un tuo compagno di scuola delle elementari.

Sai non è stato difficile, son spesso qui a Codroipo, che, come ti dicevo sempre, in quanto a investimenti pubblicitari di piccola entità ma affatto disprezzabili, butta bene, perchè gli altri free press che sono scemi, passano ben poco per di qua.

Valeriano, ti ricordi di Valeriano?

E’ sdentato adesso, L’Osteria Ca’ degli Angeli non è più sua. E’ scappato per diecimila euro di debito.
Il suo enorme archivio di Libri d’Autore ( ti ricordi quelli tedeschi?) è a Pordenone in un garage, che non ho ancora capito dove, di cui è impossibilitato a pagare l’affitto.
Cioè questi potrebbero legalmente prendersi tutto. Hai presente quegli esemplari veneziani del settecento?
Giuro che scoprirò di quanti soldi si tratta. Non giuro che ce la farò a recuperare tutto il materiale, ma troverò qualcuno che lo fa.

Valeriano giocava, dice, e tu non giocavi mai, Piermario.
A ricreazione stavi in piedi vicino alla porta, con un volume Disney, grosso, forse un Almanacco Disney, tra le mani.
Come se fosse uno scudo. Dice che eri magrissimo e avevi degli occhi stupendi, ma non ti ha mai, dico, mai, sentito parlare. Neppure quando interrogato. Tu tacevi. Leggevi. Disney.

Ti abbraccio Piermario, ti trovo tanto affascinante come “stupido” enfant.


Perché la sua mente piena di invenzioni galleggiava nell’inquietudine e, nonostante le mille relazioni, nella solitudine.

“Mi sento a pezzi”, giochi con la fotocopiatrice, visto a Mortegliano nel 2001.
Tutto per lui , anche la riflessione più viscerale, prendeva la forma dello scherzo grafico, e come tale veniva consegnato.

Dal male di vivere la fuga è impossibile, quindi il gioco, l’attività liberatoria, l’evasione lucida e catartica, devono restare sempre disponibili, pena il naufragio.

Era questa la piattaforma contrattuale del sindacalista Ciani.

Piermario Ciani ha vissuto dentro la sua mente FUNAMBOLICA dentro BERTIOLO.

E così a Bertiolo, con un rito classico da chiesa di campagna, in un afoso pomeriggio di luglio, con i suoi compaesani e tanta gente straniera di fuori paese, si sono svolti i suoi funerali.
Tristemente, quietamente, laconicamente tridimensionali e lievemente iper-reali.

Vedi Wu-Ming, people, o Massimo Giacon, che, e gliene saremo per sempre grati, ha scoperto un certo anagramma di
C O D R O I P O: dioporco.

Piermario, si ride, là?

Edited by hadele dadaumpah - 25/2/2009, 13:43
 
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celacanto
view post Posted on 25/2/2009, 21:32




Saluto anch'io Piermario Ciani.
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 15/3/2009, 22:38




RECUPERI
holdenlab
03.03.03 !



azur:


Florindarita

Florindarita bambina andava tutti i pomeriggi in chiesa a salutare la Madonna .
Quanto le piaceva fare il giro tra i banchi, guardare dentro il confessionale e poi più di tutto quell'odore di incenso e poi più di tutto cambiare i gigli nel vaso.
La Madonna era a grandezza naturale, di gesso e dipinta con colori pastello.
Così sembrava fatta di zuccherini, sembrava che te la potevi mangiare. Perchè era Bella e Buona.
Florindarita passava a dare il suo saluto tutti i pomeriggi, dopo la scuola .
Prima però, strada facendo, si fermava ad annusare un certo odore di stalle e di muschio vicino ad un certo campo, nel punto esatto di certe concentrazioni umorali della terra, come ce ne sono dappertutto nel mondo e di cui spesso i bambini sono Annusatori-Testimoni.

Un giorno Don Giulio, commosso per la puntualità sacrale della bambina, pensò di farle un regalo e mise tra le ditina puntute e rosee della statua tante caramelline di zucchero come se fosse fiorito un pesco.
Florinda entrò di corsa dal portone e subito si bagnò la mano nell'acquasantiera che era di pietra liscia liscia a furia di carezzarla.
Tutta contenta fece il suo rituale di passeggio tra i banchi-gioco a campana e se ne andò dall'Amica Sua, per dirle:buonasera Signora!
Ma avvicinatasi colse immediatamente l'anomala fioritura tra le dita. Lo sguardo, dalle caramelline in bilico, le corse al volto della statua e così, per la prima volta, notò che la Madonna aveva i denti: dalla bocca socchiusa in un sorriso sporgevano appena appena una fila di dentini avorio che l'artista aveva accennato, in un' ispirazione iperealistica.
Le caramelle ed il sorriso giunsero inaspettati e tentatori come se centomila serpi si fossero destate e cantassero una melodia che tramortisce e risucchia nel buio.

Nel silenzio della navata, Florindarita, con il brivido nero che le attanagliava le ginocchiette sbucciate e trattenendo uno strillo come un fiotto di vomito della febbre a quaranta, uscì correndo, fuori, all'aria.

Corse corse corse fino al quel certo campo dove l'asopettava l'odore di letame e di muschio e lì scoppiò in un pianto che le spezzò di netto l'infanzia e gliela lasciò, recisa, ai suoi piedi.

Non era accaduto nulla, eppure nulla era accaduto.

biandbo:

diomio, che storia, questa sì che è una storia piena,
ti intorcina lo stomaco.

Hanna Derrida:

Florindarita

Ti ho portato una prigioniera
è scalza e nera
sempre sudata, non si lava mai
piega le ginocchia
allarga le gambe
muove le mani
gli occhi no
quelli son sempre aperti sbarrati e pieni di lampi

Torna a casa a quest'ora
quand' è proprio buio
d'estate
ha sempre il culo freddo
perchè si siede a terra

caccia lumache
ruba castagne matte
mangia vitigni, è come una locusta

ha spaventosi denti verdi
pelle di cera
capelli come una matassa
di strame di stalla
un nido di paglia nera

scherza con i santi
ma anche dei fanti
ride mostruosa
con aria grifagna

laggiù all'accampamento militare la chiamano pamela
le offrono gallette vino e paste colorate
poi si siedono
a vederla saltare
sotto la luna
come una belva
in giro per la campagna

guarda, tu la devi ospitare
perchè questa, un giorno,
mi entra in chiesa
...a forza di tentare!

Edited by hadele dadaumpah - 16/3/2009, 01:55
 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 24/3/2009, 10:56




RECUPERI

incipit senza seguito

Erano tre donne. 2003


Erano tre donne, la madre e due sorelle.
Della casa della madre, quello che si vedeva da fuori, era una cucina con un piccolo tavolo e tre sedie da giardino. Non c’era mai stata una sedia per il padre a quel tavolo. Vasi di gerani dipinti alle pareti con colori ad acqua simulavano una terrazza che dava sul cielo in cui le ampie zone di intonaco scrostato sembravano candide nuvole.
Una cucina brasiliana o quella del casale veneto di Maria Goretti .
Da una porta sul fondo s’intravedeva l’inizio di corridoio pieno di zoccoli e scarpe infangate, che portava verso stanze buie e odorose …

La sorella maggiore era un bradipo grande, un corpo giunonico ed elastico. Cattiva, perfida, e devota a Sai Baba. Era la copia giovane delle membra candide e flaccide della madre, con gli stessi occhi accesi e torbidi, tra il nero naturale delle palpebre.
Gli uomini cadevano facilmente preda della sua sensualità magnetica e della latente malattia mentale.
Nella madre la malattia mentale si presentava a ogni cambio di stagione.
Doveva essere sorvegliata a vista mentre faceva la pasta con lumache triturate impastate di sabbia…




 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 24/3/2009, 11:37




RECUPERI
2003 – Album M.Veneto – recensione.

…e poi Dogville, che hanno visto tutti.



(L’uovo si rinchiude?)

Quando Von Trier dice : “…forse il film fa dormire. Io mi sono addormentato. Ma dormire fa bene”, si scusa, a modo suo.
Dogville è di una laconicità totale, una fredda superficie mentale sotto cui lampeggiano situazioni remote e artificiali come parabole.
L’uso del plurale è indispensabile, considerando la molteplicità delle chiavi interpretative di questo film brechtiano che continua ad essere discusso, citato, consigliato.

Lo studio in cui è stato realizzato è privo di distrazioni scenografiche e, uno splendido lavoro di rumoristi che ha saputo ricreare l’atmosfera del radiodramma e le preziose luci teatrali, suggeriscono proprio l’idea di una claustrofobica “palestra mentale”.
Il film ha conquistato un pubblico vasto, fatto anche da chi non conosceva la carica eversiva di questo autore che, per l’originalità e il “disturbo”delle sue proposte, si può forse paragonare a un Andy Warhol negli anni ’60. E infatti Lars, ora, occhieggia dalle pagine patinate delle riviste, col suo fessurato sguardo da lupo.

E qui val la pena di ricordare l’interpretazione più accreditata secondo cui un radicale anti-americanismo sarebbe il messaggio portante del film. Dogville, una città, un luogo, che accoglie per sfruttare, un idealismo di facciata che nasconde interessi egoistici e approfitta di tutti i deboli della terra.
Ma “Ich bin American”, dice Lars, come dire, lo siamo tutti, perché l’America ha il monopolio del nostro immaginario.
Un villaggio sulle Rocky Mountains è semplicemente uno scenario condiviso.

Tuttavia c’è una tale quantità di variegature, di segni, di dettagli significanti in quest’opera da renderla una specie di raffinatissima forma di enigmistica. Questo è il suo fascino, e l’interpretazione non può ridursi a quella di una semplice (e scontata) presa di posizione politica.

Un’altra indispensabile chiave di lettura fa notare che, oltre alla scelta inequivocabile del nome della protagonista, nei dialoghi c’è una tale densità di riferimenti al linguaggio biblico che è persino “ovvia” l’intenzione di illustrare il rapporto del trascendente con l’umano secondo le leggi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Un padre e una figlia se la vedono con creature incapaci di emanciparsi, di accogliere la grazia, di accollarsi un’autentica responsabilità morale. Da cui l’ira divina della strage finale.

La responsabilità morale dell’uomo è solo apparenza, legata a fini sociali.
A Dogville nessuno ha bisogno dell’opera di Grace, all’inizio. Il sistema è autarchico, autoreggente.
E l’unico essere da cui Grace prende qualcosa è il cane, Cerberus, guardiano dell’inferno.
Grace viene “somministrata” a Dogville da un prete-mediatore, tale Thomas Edison Junior (una specie di “garante dell’illuminazione”, con felice nota sarcastica). E’ lei l’agente rivelatore, e il lato oscuro di quel conformismo sociale alla "Small Town" di Thoronton Wilder, emerge in tutta la sua efferatezza.
Ogni morale sociale è un mutuo patto di omissioni, di connivenze, di coperture. Un’artificiosa, e solo funzionale, dimensione orizzontale di un viaggio, quello individuale, che può essere solo in profondità. E in profondità solitaria fino al martirio sono andate, infatti, le protagoniste di “Onde del Destino” e poi “Dancer in the Dark”.

L’uovo si rinchiude, perché?
Von Trier ha dichiarato che farà altri due film-teatro, come questo.
Il cinema è un linguaggio che prende a significante la realtà, secondo la definizione pasoliniana, allora forse la direzione verso cui si muove Von Trier ora, è verso l’uscita dalla dimensione tridimensionale del cinema.
(La Kidman era solo spettinata, lui è riuscito solo in parte a “usare” davvero la sua bellezza, in effetti) (Con Bijork ha chiuso definitivamente i rapporti e a Cannes hanno fatto conferenze stampa separate)
La sua energia espressiva sta già tornando verso un ambito più astratto?
Quel che importa, in ogni caso, è che questo autore straordinario continui a spettacolizzare i suoi atti, con l’implacabile assertività del grande artista che indubbiamente è.


 
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hadele dadaumpah
view post Posted on 26/3/2009, 11:29




RECUPERI

frammento.


...capitò per caso che guardasse le pagine indietro del registro: 15 dicembre 1996, 14 dicembre 1996, 13 dicembre 1996...cercava la data del compito delle terze.
Scoprì, sorprendendosi alquanto, che qualcuno stava ripassando sistematicamente le sue firme sul registro di classe... che strano!
Sembrava che una mano carezzevole avesse smussato gli angoli e le linee spezzate di quel grafema “isterico” che era la sua sigla...
come accarezzando, appunto, i peli ritti di un gatto...
Che piccola cosa assurda, che piccola cosa dolce...

 
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rien4
view post Posted on 27/3/2009, 14:50




Appuntisgualciti
ELLE!
Un omaggio al “mistero” Louise Brooks
Monologo con Hanna Schygulla

Regia:
Hanna Schygulla
Roberto Tricarri - 11-02-04

teatro Astra – Schio – Vicenza

E’ lì, sul palco, in mezzo ad un cerchio di luce davanti ad un leggio,
Lì con il suo viso rotondo e gli occhi distanziati e il mento aguzzo.
Il tailleur grigio scuro ha la giacca lunga e i calzoni a sigaretta cadono sulle scarpe appuntite a stivaletto, da elfo capriccioso.
I capelli, trattenuti da una fascia larga color fucsia, non rivelano che in parte il biondo chiaro; sotto la giacca si intravede un gilet trapuntato di rosa brillante e nero.
Tiene i piedi allargati alle punte, come le ballerine.
Piccola, ma non minuta. In qualche suo modo segreto, ugualmente imponente.
La voce profonda, scandisce lentamente le parole in un italiano quasi privo di accento, ma il momento migliore è il canto.
Lì la voce rauca, incredibilmente forte e decisa prende respiro.
Alla fine l’attrice si inchina più volte all’applauso raccogliendo le mani attorno ai fiori di rito.
Appare più volte rispondendo al richiamo del pubblico. Il passo baldanzoso.
Nel camerino squallido accoglie la stampa e l’operatore.
I ragazzi del giornale sono giovani, per loro lei probabilmente non rappresenta nulla o ne hanno appena sentito parlare.
Per me è il passato che ritorna. Mi intrufolo tra loro.
Durante le riprese si preoccupa delle luci come tutte le donne non più giovani.
Mi accoglie inizialmente scontrosa.
E’ preoccupata per l’intervista ed è appena reduce da un incontro con un fan incauto che l’ha fatta innervosire.
Le mormoro qualcosa balbettando in inglese… le ricordo “Il matrimonio di Maria Braun”di Fassbinder.
Sorride, ancora distante.
Mi firma l’autografo, una scusa plausibile per me per ringraziarla della sua presenza nello schermo e nei teatri del mondo.
Le porgo la mano, la sua è piccola e fredda.
La guardo, gli occhi di un azzurro intenso sono rassegnati, di una stanchezza rapace.
Per un momento allarga le labbra in un sorriso storto.
 
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35 replies since 5/2/2009, 23:44   961 views
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